martedì 21 giugno 2011

Leggere significa incontrare

C’è un articolo straordinario di Cesare Pavese che parla di uomini e di libri. Dice che i libri non sono gli uomini, ma sono i mezzi per giungere a loro. Chi ama i libri e non ama gli uomini è un fatuo o un dannato.
Perché leggere significa incontrare l’altro, comprendere i destini che si cercano o che si rifiutano, che si rincorrono o che si allontanano, che si contemperano o che si dilacerano.
Leggere significa condividere tutte le possibili esistenze. Tutto quello che può accadere ad un uomo, a una donna, è già accaduto in una pagina di romanzo, nel verso di una poesia, in una scena di teatro.
Forse non è possibile il verificarsi di un evento che non sia già stato scritto nella Bibbia, nella Divina Commedia, nell’Iliade, nell’Odissea, in un dialogo di Shakespeare, in un passo di Proust, in un racconto delle Mille e una notte, in una narrazione anonima passata di tempo in tempo, di voce in voce.
Nella tragedia greca c’è il grumo semantico di ogni possibile vicenda. I personaggi sono archetipi che costituiscono il riferimento inevitabile per una comprensione essenziale del manifestarsi dei sentimenti, nelle loro espressioni comuni, nelle esasperazioni, nelle loro stralucenti bellezze, nelle loro degenerazioni patologiche, nelle loro involuzioni in complessi.
Allora leggere significa penetrare nell’universo multiforme, aggrovigliato, a volte indecifrabile delle passioni e degli appassionamenti umani. Significa stabilire relazioni con la realtà, con la vita, con le forme del mondo, le rappresentazioni del tempo, con i dolori e gli stupori degli uomini, con le loro ragioni, i loro amori, i loro disamori, le loro umiltà e le vanità, le loro fantasie e le loro ossessioni. Significa vivere ogni tempo, pensarsi nella condizione di esistere in una realtà simulata, in un territorio governato dal reale e dall’immaginario, a sentire la Storia come l’esito degli intrecci di innumerevoli storie vere o inventate, oppure – come spesso accade – un po’ vere e un po’ inventate.
Soltanto la lettura consente di attraversare il passato con la compagnia di personaggi che dicono in che modo le cose sono andate, oppure in che modo non sono andate, che spiegano le cause e gli effetti delle scelte, delle decisioni, che raccontano i modi di pensare e di agire in un tempo lontano e diverso da quello che si vive.
Un libro propone una conoscenza ed un’esperienza dei fatti del mondo che non sono mai assolute, né ultime, inconfutabili, irreversibili, definitivamente compiute. Non dice che esso sa qualcosa; dice, piuttosto, che la sa lunga sugli uomini, sulla loro sorte, sulla sapienza e sulla follia, sul loro disincanto e sul loro stupore per il terreno e per l’ultraterreno, il visibile e l’invisibile, il reale e l’irreale, il vero, il verosimile, il falso.
Leggere vuol dire dislocarsi: essere in ogni luogo, abitarlo con consapevolezza per il tempo che dura una descrizione, una pagina, un solo verso. Forse anche oltre quel tempo.
Dice Ricardo Piglia in un libro intitolato “ L’ultimo lettore” che “c’è sempre qualcosa d’inquietante, di insolito e insieme familiare, nell’immagine assorta di qualcuno che legge, una misteriosa intensità che la letteratura ha fissato molte volte. Il soggetto si è isolato, sembra separato dal reale”.
Subito dopo l’apparizione del fantasma del padre, Amleto entra in scena con un libro, in una condizione, ad un tempo, di malinconia e di alterazione.
Kafka nei suoi “Diari”, in quei passaggi rapidissimi di immagini, dice della scissione tra la vita e colui che legge, dello sfasamento, della separazione.
Borges fa vivere il suo straordinario lettore nello spazio che si apre tra la parola e la vita, tra la lettera e il sangue, tra il tempo reale e la finzione del tempo che c’è in ogni lettura. Per il lettore di Borges l’universo ha il suo principio in una biblioteca, lì si sviluppa, si espande, si ramifica, di dilata, si moltiplica. Non finisce. Non finisce mai.
Leggere significa fare i conti con questo universo sconfinato. Significa accettare di disperdersi nel tempo alterato e nello spazio artificioso di quell’universo.
Il lettore postmoderno è un soggetto alienato, frustrato. Ha coscienza dell’impossibilità di impadronirsi anche solo di una goccia del sapere che fluttua dentro i libri. Cerca di circoscrivere i testi e invece i testi si ingigantiscono, intrecciano le forme, alla carta aggiungono uno schermo, gli schedari si integrano con i motori di ricerca, le biblioteche si strutturano in rete, le librerie straripano, l’informazione diventa sovrabbondante, smisurata.
Allora il lettore sapiente torna a quell’articolo di Cesare Pavese che parla di uomini e libri e dice che non si riesce a leggere, non si può leggere, se si è troppo sicuri di sé, se non si ha il senso dell’umiltà, se non si sa accogliere l’altro, il lontano, il diverso, se non si riesce a capire che i libri costano dolore, che non si può sperare o pretendere di scandagliarli se non si è disposti a pagare di persona.
Allora leggere davvero significa anche essere disposti a pagare di persona quel senso che si cercava e che si trova, quello che non si cercava - non si sospettava - e che si incontra in una pagina, una riga, quello a cui si dà la caccia, disperatamente, ma che sfugge, come una preda scaltra.
Forse è soltanto pagando di persona che il lettore può risarcire in qualche modo chi ha scritto quella pagina, quella riga. O, più semplicemente, che può fargli il dono di capire la profondità – l’abisso – di quello che ha scritto, di dimostrargli che quelle parole non sono passate invano per il pensiero, per la coscienza, per i labirinti del cuore.

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