venerdì 3 giugno 2011

IL SINDACO CHE VOGLIAMO

Chi sarà il Pisapia o il De Magistris di Corato?”. E stata questa una domanda molto opportuna formulata dall’amico prof. Gaetano Bucci nell’articolo pubblicato da Coratolive il 2 giugno scorso. In altri termini, circa due mesi fa, anche il sottoscritto ha posto l’identico problema ai partiti dell’opposizione locale che hanno deciso di dare vita a dei tavoli di lavoro orientati a definire gli indirizzi programmatici.

Prima del programma e della coalizione, così come è avvenuto nelle recenti competizioni elettorali amministrative, è la scelta del candidato sindaco che deve avere carattere prioritario, concordando senza altri indugi le modalità di scelta, tra le quali le primarie sembrano le più concrete e condivisibili.

Ma prima di procedere con questo tipo di consultazione, sarebbe utile realizzare un sondaggio tra i cittadini-elettori chiedendo loro di rispondere alle domande di un questionario dal quale risulti un ritratto abbastanza realistico di questa figura istituzionale che dovrà occuparsi del loro Comune con intelligenza e responsabilità per cinque anni, non rinunciando mai alla possibilità di consultarli a norma di leggi e statuto comunale.

Intanto, nell’attesa di vedere attivata simile procedura ci permettiamo di esprimere le nostre idee in merito.

Più che la decisione, la qualità prima che un sindaco, e in generale colui che è impegnato nel servizio alla città, deve possedere è l’ascolto. Le scelte, specie quelle più difficili, devono affondare le loro radici nell’ascolto profondo della comunità amministrata. Il sindaco è un crocevia. Nella deriva delle diverse istituzioni politiche tradizionali, il sindaco resta uno dei pochi riferimenti sicuri per la comunità, ben al di là dei suoi già vasti ambiti di competenza. Padre, confessore, garante, potente: nell’immaginario collettivo il sindaco è una figura straordinariamente polifunzionale.

Parlare col singolo cittadino e guardare gli orizzonti della comunità. Freddo e inflessibile nell’applicazione delle procedure amministrative, ma caldo e appassionato nello slancio testimoniale. Non potrebbe sostenere quest’ incessante dilatazione del suo sguardo, non gli sarebbe possibile se non fosse capace di ascoltare profondamente, se non fosse cioè un abituale frequentatore dell’intimità collettiva. Profondamente dentro la città e le sue dinamiche, ma anche oltre, almeno quel tanto di distacco sufficiente ad osservarla nel suo insieme. E’ il più osservato della città, ma anche il suo migliore osservatore.

Non una, ma cento, mille città convivono nella stessa città. Mondi diversi s’intersecano e

condizionano in un’intricata rete di relazioni, scambi, culture, stili di vita e anche conflitti. Cento città, ciascuna delle quali pensa se stessa come unica, essenziale, centrale. Che lotta perché il proprio bisogno sia riconosciuto per il suo superiore valore rispetto a quello degli altri.

La città come un campo di forze che si contendono lo spazio fino a raggiungere un equilibrio. Non è sempre facile ottenere che l’equilibrio sia anche giusto. Quando si decide, ad esempio, una zona pedonale o delle “piste ciclabili” non “pesano” nella stessa misura la forza rumorosa, compatta e caparbia dei commercianti e quella debole, frammentata e cedevole dei pedoni e dei ciclisti. Gli interessi sono l’energia che muove le forze. Non sempre l’identità degli interessi è negativa, cioè con una matrice egoistica. Talvolta, più raramente, l’identità degli interessi può avere una radice ideale: ad esempio, la lotta dei gruppi ambientalisti per la difesa di un’emergenza ecologica del territorio, o del Comitato promotore dell’interramento dell’elettrodotto sarebbe altrimenti soccombente rispetto alla forza espressa da alcuni interessi economici.

La politica è il luogo dove si ricerca il punto di equilibrio “più giusto” tra le “forze” delle cento città.

Il sindaco, più in generale, l’amministratore, ne è l’arbitro. Parziale. Sì, parziale, nel senso che non può fermarsi alle esigenze che riescono autonomamente ed esplicitamente ad esprimersi. Deve anche essere, per quanto gli è possibile, in grado di avvertire, scorgere, intuire le voci deboli, la forza fragile, la città ancora sommersa degli anziani, dei giovani esclusi, dei disoccupati, che, priva di microfono, sta dall’altra parte del palcoscenico.

Il sindaco non è un notaio che ratifica l’esistente. E’ un comunicatore. Meglio, un facilitatore della comunicazione tra i gruppi e le persone. E’ un pedagogo della comunità, costruttore di democrazia. Dice a ciascuno dell’esigenza dell’altro. Agevola le relazioni e i reciproci, faticosi, anche conflittuali riconoscimenti. Perché se lo spazio non è sufficiente per il monopolio di una sola città, al contrario è abbondante per le cento città che possono crescere insieme nei diritti e nelle opportunità.

C’è poi un altro sindaco. Altro rispetto alle competenze già eccedenti che le leggi gli attribuiscono. Altro rispetto a colui che si occupa di strade, verde, pubblica illuminazione, edilizia pubblica, pianificazione del territorio, e, perfino dei massimi problemi sanitari della città. Un altro sindaco non codificato dalle norme, che scruta e ascolta le dinamiche che congiungono le modificazioni della città materiale ai cambiamenti della città degli uomini.

Il sindaco, poiché azzarda continuamente previsioni, se non vuole sbagliare molto deve saper ascoltare profondamente le intime connessioni tra le comunità degli uomini: i fittissimi scambi immateriali tra l’ambiente fisico e le persone. Realizzare una piazza o creare un giardino in un quartiere non significa modificare solo la morfologia di una parte del paesaggio urbano, significa restituire opportunità di aggregazione e di socializzazione ai cittadini, modificare il loro stile di vita, intervenire, in ultima analisi, sulle patologie della moderna incomunicabilità. Un parco giochi frequentato da pochissimi bambini e con un tasso elevato di vandalismo (che è indice di dello scarso senso di appartenenza alla comunità), sarà tale fino a quando non saranno i bambini stessi, con un sussulto di democrazia, a indicarne la riorganizzazione dello spazio e delle funzioni.

Insomma, la città materiale non è neutra né incolore. E’ il riflesso della cultura delle “immagini di mondo” della comunità. E’ il modo concreto con cui tutti i cittadini, o meglio, le loro forze organizzate articolano i luoghi in cui vivono.

Il sindaco deve difendere, dunque, con scelte anche drastiche, la voce veramente senza voce che parla il linguaggio del futuro.

Il tempo storico della politica e dei suoi codici. E’ sotto gli occhi di tutti quanto la politica a Corato sia in grande e grave ritardo. Ha perso moltissimo tempo. I problemi profondi le sono sfuggiti di mano, occupata in faccende di tutt’altro tipo. Non le sarà facile recuperare il ritardo. Occorrerà molto tempo. E non è detto che ci riesca.

Ricostruire le fratture che separano la politica dai bisogni sociali, dall’economia alla stessa etica, è un’operazione improba. Spesso il sindaco è tentato di eludere il tempo, deve continuamente andare dal tempo lungo delle azioni profonde che cambiano la rotta della vita di una città, al tempo corto delle contraddizioni immediate, le emergenze di cui è riccamente farcita la sua attività quotidiana.

Altro che “governare con intelligenza i fatti “, la politica da tempo non ragiona sui problemi. Amministra ma non governa i processi.

E così al sindaco, nuovo formato stile legge 142/90 e 267/2000 e a quello che uscirà dalle urne nella 2013, è richiesto di riprendere il timone della rotta, senza lasciare però l’equipaggio in coperta, solo nella vita di ogni giorno. E accompagnato, come un’inseparabile fedelissima ombra, dalla sensazione di continua insufficienza rispetto agli arretrati di problemi e di attese accumulate, egli ci rimette tutto il tempo.

Infine, lacerato da questa ineludibile presa diretta con la realtà, non gli resta null’altro del suo tempo. Raccoglie i suoi cocci, senza attendere gratificazioni e riconoscimenti. Gli resta solo il privilegio dell’amicizia intima con la comunità.

Presidente de Centro Studi Politici “A. Moro”

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