sabato 12 marzo 2011

LA LEZIONE DI MORO A 33 ANNI MAI COSI’ DALLA SUA MORTE ATTUALE

Mercoledì 16 marzo ricorre il trentatreesimo anniversario della strage di Via Fani a Roma, in cui fu sequestrato il presidente della DC on. le Aldo Moro e trucidata la sua scorta ad opera dei terroristi delle Brigate Rosse. Non è il momento per rifare la cronaca dei cinquantaquattro giorni caratterizzati dall’alternanza della fiducia e della preoccupazione, con tutti gli interventi, dai più umili ai più alti e solenni, seguiti, il 9 maggio dalla tremenda notizia della renault rossa ritrovata col cadavere del martire a poca distanza da piazza del Gesù e da Via delle Botteghe Oscure. Un tragico evento che gettò nel lutto una nazione, offese la coscienza degli italiani e che ha costituito la pagina più obbrobriosa e degradante tra le tante scritte e firmate dalle B.R., ed ha chiuso un’epoca nella vita della giovane repubblica italiana, facendo compiere una svolta al nostro modo di pensare e di vivere.

Questo intervento che propongo all’attenzione dei lettori in nome e per conto del Centro Studi intestato all’indimenticabile statista, non vuole essere una retrospettiva sulla responsabilità del sequestro e sui misteri che tuttora lo accompagnano, ma una doverosa riflessione, senza retorica, su una figura certamente degna di rispetto e di attenzione.

Moro, lo ricordiamo in particolar modo ai giovani, è stato un uomo di eccezionale intelligenza, di forte cultura e di una concezione intellettuale e spirituale che ne fanno una figura unica nel panorama del cattolicesimo politico italiano. Intendeva la politica come ideale di sviluppo della società civile, invece che come arte di governo dello Stato. Memorabile un suo pensiero: “Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere”.

Ogni buon politico dovrebbe fare tesoro di questo insegnamento, se vuole contribuire veramente a dare un senso alla propria azione politica per la comunità.

Questo bisogno fa immediatamente i conti con un sentimento spontaneo, che la distanza del tempo ed il passare degli anni acuiscono: l’assistere ormai quasi disarmati ad un processo aggressivo di involgarimento della politica aumenta e rende sempre più profondo il rimpianto e la nostalgia per un esempio di statista che racchiude una politica mai gridata, colta, misurata, sempre tesa a sollecitare l’intelligenza e la ragione, a fare appello ai valori morali; e, dunque, radicalmente alternativa ad ogni tentazione di pensiero e di prassi diretti, anche inconsapevolmente, a sollecitare il fondo di istinti volgari. In definitiva, una esperienza politica consapevole dei limiti invalicabili ella politica e animata dalla interiore certezza che la politica non può essere salvata solo dalla politica.

Moro sapeva che il tempo della politica era entrato definitivamente in una società la cui energia risiedeva e risiede tuttora nello scambio di esperienze, nel confronto di una articolata gamma di valori. Una società, dunque, in cui nessun valore, nessun gruppo sociale può pretendere di egemonizzare, modellare e guidare l’insieme del corpo sociale, e dove la progettualità politica deve misurarsi con lo sforzo irrinunciabile di rendere in qualche modo componibile su fini comuni questo necessario pluralismo. E’ la fatica del confronto sistematico, della sistematica valorizzazione positiva delle differenze: “chi ha più filo tessa”.

Per questo, onorare la memoria di questo statista saggio e lungimirante, di quest’uomo veramente buono, di questo vero politico cristiano, oggi – per quanti s’interrogano con sincerità a diverso titolo sul senso del bene comune – è innanzitutto accettare la responsabilità di assumere tutta la sua lezione e la sua eredità.

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