giovedì 3 settembre 2009

La riforma dei partiti tra partecipazione e responsabilità

Quale risposta dare alla crisi di rappresentanza dei partiti, come colmare il vuoto di partecipazione che caratterizza questa stagione della politica?

Se è vero che il Partito democratico deve essere un partito riformista, com’ è scritto nelle mozioni congressuali dei candidati alla Segreterie nazionali e regionali Dario Franceschini/Guglielmo Minervini, Pierluigi Bersani/Sergio Blasi, Ignazio Marino/Enrico Fusco e Michele Emiliano dovremmo domandarci insieme a tutti quelli che si accingono a partecipare alla kermesse prima di tutto: perché non cominciare a riformare la forma partito?

Forse non si tratta più di domandarsi tra gli addetti ai lavori della politica cosa può offrire di nuovo la politica al paese, alla società, ai cittadini…, ma di scoprire insieme, incontrandosi tra politici e cittadini, cosa chiedono i cittadini, il mondo globalizzato e localizzato alla politica e ai politici?

Non si tratta quindi di limitarsi a riformare i vertici dei partiti e delle istituzioni e poi scendere verso il basso per riformare la politica e la società.

In questo senso le dichiarazioni dei vari esponenti politici peccano di dirigismo e di presunzione nello stabilire ciò di cui l’Italia, le Regioni, le Province e i Comuni hanno bisogno, ma soprattutto è una lunga riproposizione di valori e di percorsi già noti.

Secondo noi, invece, ecco da dove si dovrebbe cominciare: provare a strutturare il nuovo Partito democratico con organismi politici partecipativi, cioè allargati, aperti, inclusivi, flessibili, leggeri, trasparenti, che facciano della partecipazione (dal basso) la conditio sine qua non deliberatum.

Allora l’innovazione salirà quasi spontaneamente dal basso, come s’inzuppa il pezzo di pane nel vino. Pensiamo forse pensare di poterlo fare una volta che tale partito sia rinato, magari precostituito con le stesse persone che lo hanno gestito precedentemente nei partiti di provenienza, attraverso i metodi tradizionali del tesseramento, della rappresentanza, della cooptazione?

Non sarebbe opportuno progettarlo, fin da subito, prevedendo di immettere al suo interno i geni della partecipazione collettiva, della conoscenza globale, della responsabilità individuale? La domanda che continuiamo a porre ed a porci sin dallo straordinario evento delle primarie celebratesi il 14 ottobre 2007 è: quale risposta dare alla crisi di rappresentanza dei partiti, come colmare il vuoto di partecipazione che caratterizza questa stagione della politica, come dare senso a quella cittadinanza attiva che dovrebbe essere il fulcro del precetto costituzionale secondo il quale ognuno può concorrere con metodo democratico a determinare la politica ad ogni livello.

Il Pd nasceva come risposta forte alla crisi di democrazia. Una crisi profonda. Una crisi che ha prodotto ferite profonde nella nostra società, allargando lo spazio delle ingiustizie, delle disuguaglianze, delle povertà. Contrapponendo in modo intollerabile libertà e solidarietà, sviluppo e coesione sociale, diritti e doveri. Rendendo insopportabile il divario tra garantiti e non garantiti. A tutto questo le nostre culture di riferimento non hanno saputo dare risposte convincenti. Ecco, dunque, la missione per cui deve nascere il PD: unire i riformismi per dare una risposta alle domande nuove che hanno cambiato l’Italia e la nostra realtà territoriale nel tempo della globalizzazione. Un’ambizione straordinaria, nel senso letterale del termine.

Quello che ci aspettiamo e che vogliamo contribuire a far nascere è dunque un partito realmente riformista, forte, radicato e dunque rappresentativo dell’intera società nazionale comunale, capace di declinare al futuro le sue culture democratiche, ed in particolare l’esperienza preziosa dell’Ulivo e di costruire su queste basi la sfida alla destra.

Un partito che, nel quadro della democrazia bipolare dell’alternanza, rappresenti il soggetto politico riformatore capace di mettere in campo una proposta di governo nazionale, regionale e locale competitiva, una nuova alleanza non solo per vincere ma che sia poi in grado di governare e amministrare.

Chi ritiene che lo schema della sinistra e del centro distinti e alleati (magari col trattino) funzioni meglio, di fatto nega le ragioni fondative del Pd. Certo la costruzione di un partito plurale, aperto, post-ideologico è difficile, perché occorre mettere in discussione vecchie appartenenze, modo di essere, certezze che si ritenevano definite.

Quello che ci aspettiamo è un partito radicato nel territorio, capace di resistere ad ogni indebita pressione o ingerenza. Un partito laico e plurale che fa della contaminazione tra le visioni del mondo e le culture politiche una straordinaria occasione di arricchimento reciproco e un argine efficace contro tutti gli integralismi e i fondamentalismi, religiosi come ideologici.

Ecco alcune caratteristiche del Pd che tutti insieme dobbiamo contribuire a costruire, al di là delle specifiche aderenze congressuali: un partito federale e aperto, plurale e laico. Una forza innovativa, insomma, capace di leggere e governare il cambiamento.

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